LA MANO MOZZATAmanociao.gif (14212 byte)

Il cielo si era tinto di un rosa pallido. Era l'alba di un giorno di primavera ed il carro procedeva lentamente, tirato d'un enorme cavallo, per le strade della Piana di Catania. L'uomo che guidava il carro, non era un carrettiere di mestiere, ma era il padrone del carro e del cavallo.

Don Miciu, infatti, andava una volta la settimana nelle fattorie della Piana, le vecchie masserie, per rifornirsi di uova, polli, conigli, e oche che gli servivano per la sua grandissima trattoria, lì, alla Pescheria.

La strada si snodava, ora bianca di sole, ed il guidatore sonnecchiava un po', perché la mattina s'era svegliato molto presto, per sbrigare tutto ciò che c'era da fare.

La figura di un uomo smilzo, barbuto, si stagliò davanti al cavallo. Don Miciu aprì gli occhi e l'individuo, avendo afferrato il cavallo per la cavezza disse ruvidamente: "Parola d'ordine!". "Tricot", rispose Don Miciu. "Passa", disse l'uomo lasciando libera la cavezza. Stavolta, Don Miciu, si svegliò del tutto e mise il cavallo al trotto. Doveva fare presto, perché non voleva ritornare quando il sole era troppo alto, e poi la moglie se egli non fosse tornato in orario si sarebbe non solo preoccupata, ma anche arrabbiata. E così cominciò a far correre il cavallo, che sembrava felice di non camminare più al passo. Giunto alla masseria e salutata la massara, che l'aspettava, cominciò a girare per l'aia, guardando le galline che stramazzavano, quasi sapessero la sorte che le attendeva, e osservando le ceste con le uova fresche da portare via. Quindi legati i polli per le zampe, come le oche che riempivano dei loro sgraziati qua-qua l'aia, e sistemati gli acquisti nel carro e pagato il conto riprese la strada del ritorno. Ora il cavallo aveva aumentato il trotto: aveva fame. Don Miciu si faceva mentalmente i conti e pensava che stavolta i polli gli erano costati un po' di più. Poco male: avrebbe potuto fargli pagare di più ai clienti. E così, verso le ore13 arrivò a casa.

La moglie, donna Francesca, l'aiutò a liberare il carro dalla merce, chiedendo notizie della fattoria e della fattoressa e poi sistemati gli animali nelle stie, andò a rimanere la trippa nel pentolone, dove aveva messo i piselli per fare la "busecca", cibo che piaceva enormemente agli avventori, che ne prendevano sempre in abbondanza.

Siamo alla fine dell'ottocento, un ottocento, dove tutto scorreva con calma e regolarità. Tempo in cui gli uomini, preferivano la sera andare in trattoria a bere qualche bicchiere di vino, a mangiare un piatto di minestra e a fare una partita a carte. La cucina era buona e l'ambiente riscaldato dai grossi focolai, ed il vino scendeva giù che era un piacere, frizzante e generoso e donna Francesca sapeva il fatto suo, in fatto di soldi: chi mangiava doveva pagare, senza fare storie, e tranne qualche rara eccezione, tutti pagavano di buon grado. A notte inoltrata, poi donna Francesca, annotava diligentemente quanto aveva guadagnato e metteva le monete in gran recipienti di rame con coperchio, poi andava serenamente a letto a raggiungere il marito che l'aveva preceduta. Ma una notte che si era attardata più del solito, per certi conti che non tornavano, sentì un rumore sospetto, dalla parte della cucina. Tese di nuovo l'orecchio, pensando che fossero i topi, ma il rumore si fece più forte. Allora spense il lume, ed in punta di piedi, s'avviò verso la cucina. Nella grande porta che chiudeva la cucina, c'era in basso un buco rotondo, la "gattaiola", cosiddetta, proprio adatta a far uscire ed entrare il gatto di casa che aveva tendenze, diciamo "dongiovannesche". Ma stavolta, non era il gatto che cercava d'entrare, ma piuttosto una mano che cercava di aprire la grossa porta, sperando di togliere il ferro che la chiudeva, e armeggiava pazientemente a questo scopo.

Donna Francesca, non stette a riflettere: afferrò un grossa scure da macellaio, il cosiddetto batticarne, e ne assestò un colpo secco, preciso, nella mano, proprio sul polso.

Un urlo raccapricciante si fece sentire e la mano cadde a terra, macchiando di sangue il pavimento. All'anulare c'era un anello che donna Francesca ricordava d'aver visto. Allora prese uno strofinaccio della cucina, vi avvolse la mano, poi la mise in un barattolo di vetro che riempì di alcool puro, dopo si mise a letto, ma non disse niente al marito per non svegliarlo. Ne avrebbe parlato l'indomani con calma. La mattina dopo, portò il vaso di vetro al marito, dicendo semplicemente: "Guarda!". Don Miciu osservò stupefatto e disse: "Ma questa è …", "Sì!", rispose la moglie, senza aspettare che finisse la frase, "Si, è proprio la mano di compare Carmelo, ho riconosciuto l'anello!". "Birbante, delinquente, disse Don Miciu, l'avrà a che fare con me. Lo denuncio!".

E così di buon mattino, s'appostò nei pressi della casa di Don Carmelo. Voleva sorprenderlo e catturarlo, con le sue mani…

Ma la casa era chiusa e silenziosa, Don Carmelo e la famiglia s'erano allontanati nottetempo, per ignota destinazione. Niente da fare, dunque, per il momento. E così passarono gli anni, dieci per l'esattezza. Ma un giorno che Don Miciu, era uscito di pomeriggio, vide venir fuori della casa che era stata per tanto tempo chiusa, un uomo completamente canuto, che camminava curvo e a testa bassa, come oppresso da un gran peso. Don Miciu guardò attentamente: l'uomo aveva una mano artificiale, che portava un guanto nero.

L'indomani Don Carmelo ricevette un pacco in cui c'era il vaso di vetro con la sua mano con l'anello. Al vaso era incollato un foglietto in cui a grossi caratteri c'era scritto: "Riprendete ciò che è vostro

Graziella Riccioli Patania